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mondo. A questo punto ci si aspetterebbe che, per dare una svolta al personaggio inizino a morire tutti quanti, ma il destino riservò una sorte differente.
Quando Filippo ebbe compiuto i 18 anni ci fu una grande penuria di lavoro. E i suoi genitori, anche con economie ma comunque da disoccupati, furono costretti ad emigrare in Australia, dove il padre aveva dei cugini che potevano aiutare quella famigliola a finire di crescere la figlia più piccola. Filippo da principio non fece opposizione, a differenza di sua sorella che accusava i due genitori di sradicarla dalla sua patria e, principalmente, dalle sue amiche. Ma decise che da maggiorenne poteva restare in patria e cercare di sopravvivere con le sue forze.
I genitori lo dissuasero che non ce l’avrebbe fatta. Ma a differenza di loro, lui aveva nel sangue una voglia di sopravvivere come pochi altri. Qualcosa che ti porta a succhiare la vita in modo abbondante da tutte le possibili creature che ti capitano a tiro. Quell’istinto, se così lo si può chiamare, che ti fa essere l’uomo giusto al momento giusto per ogni occasione. Filippo era riuscito nell’intento di ottenere il diploma di scuola superiore. Ma aveva arricchito la sua vita scolastica di libri e trattati, tanto su internet quanto cartacei, che gli avevano dato una ricchezza interiore abbastanza sconfinata. Oltre che un mare di informazioni da spendere dove necessario.
A 19 anni, con qualche economia iniziale da adolescente e con alcuni lavoretti saltuari a vicini di casa e amici, viveva da solo dividendo la casa con due ex compagni di liceo che lavoravano più di lui ottenendo il suo stesso risultato. Questi due ragazzi coetanei stavano infilati in diversi part-time. Lui con diversi giri dei negozianti suoi amici riusciva a raccogliere abbastanza soldi per sopravvivere, faticando meno dei suoi coinquilini.
Filippo passò da un lavoro all’altro. Da un impegno all’altro. Fino a che, girovagando per internet e chiacchierando con della gente sui social, non venne a sapere del lavoro al laboratorio orafo.
Riflettendoci, poteva farsi una piccola cultura del mondo dell’oreficeria, tanto per non sembrare uno di primo pelo o da scartare. Ma il suo istinto primario gli disse che in una piccola bottega orafa, come lui la aveva vista facendo un giro di ricognizione, dove vivevano di lavoro una commessa e un artigiano, non poteva servire qualcuno che ne sapesse di oro, come il suo diretto contendente sembrava dimostrare il giorno del colloquio congiunto. Meglio sarebbe servito qualcuno capace di “cavare oro” da un semplicissimo negozietto in un pertugio della strada.
Fu questo consiglio interiore che lo spinse a puntare tutto sull’essere un bravo venditore. Un maestro dell’acchiappo del cliente.
E lui tutte queste doti le aveva acquisite in dieci e passa anni a combattere sulle strade della città per sopravvivere. Si era cibato delle caratteristiche dei

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con la riduzione di stipendio per il vitto e l’alloggio, stando in casa con il signor Tazio, si decise di prendere un borsone e mettere lo stretto indispensabile per andare a vivere il suo lavoro dalla casa del signor Tazio.
Filippo si risolse essere anche abbastanza bravo a fare da mangiare da smettere l’abitudine di andare al bistrot e di spendere soldi in questo modo, come aveva sempre fatto Tazio con Iolanda. Lei non aveva mai neanche fatto un uovo a tegamino. E perfino quando si risolse di fare una pastasciutta successe un disastro, con una pentola distrutta per il sugo bruciato e la pentola della pasta con gli spaghetti incollati al fondo da non riuscire più a staccare nemmeno con la spatola. Da quel momento il signor Tazio si disse che lui e lei avrebbero mangiato al locale vicino al laboratorio. In fondo, la spesa di preparare il pranzo a casa era equivalente, con un leggero rincaro di prezzo, a quella del bistrot. E Tazio, pur se segretamente attaccato al soldo in tarda età, non voleva dimostrare taccagneria.
Prima che Iolanda se ne andasse, Tazio organizzò una festa a sorpresa con tutti quelli del quartiere. La fece organizzare al bistrot. Iolanda vide fare dei preparativi da lontano, ma gli venne detto che si trattava di un compleanno. Lei sapeva che raramente, se non mai, al bistrot si festeggiavano dei compleanni, vista la politica di quel locale. Ma non volle approfondire. Pur se legata a quei posti da tanti anni di frequentazione, adesso la cosa le importava di meno. La sua vita si improntava ad essere vissuta come cittadina inglese. E per questo stava prendendo lezioni di inglese da circa un anno, con risultati altalenanti.
La festa a sorpresa fu davvero bella. Con la scusa di andare a prendere un caffè per il signor Tazio si recò al bistrot, e le fecero tutti “Sorpresa!”. I festeggianti risero e si divertirono insieme a Iolanda. Tutti tranne il signor Tazio, che perdeva la sua valente collaboratrice ma in apparenza sembrava divertirsi. Adesso però aveva Filippo, che si presentava come un valido venditore. Aveva il difetto di non sapere nulla sull’oreficeria. Ma di sicuro gli avrebbe fatto fare una valanga di soldi.
Segretamente era questo il suo proponimento: tra poco tempo avrebbe dovuto obbligatoriamente smettere perché troppo vecchio per reggere i ritmi della bottega. E quindi voleva un finale con il botto.
Filippo, mosso da curiosità, gli chiese cosa sarebbe successo alla fine del negozio. E il signor Tazio glielo disse chiaramente: avrebbe smesso di lavorare. E per lui ci sarebbe stata una abbondante lettera di referenze per il suo prossimo lavoro.
Filippo, dal canto suo, si disse che magari un anno di lavoro poteva andare bene come aggiunta al suo curriculum. Ma quando meno te lo aspetti il destino ti riserva qualcosa da afferrare il più velocemente possibile.
Filippo era nato e cresciuto in periferia. Per lui la vita era stata abbastanza semplice con i genitori lavoratori e una sorellina a cui dare tutto l’affetto del

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Il fatto, adesso, era se si sarebbe abituato ad una nuova, o ad un nuovo, Iolanda. Ma Iolanda gli garantì che avrebbe selezionato qualcuno abbastanza alla sua portata, dato che avrebbe dovuto pescare in mezzo al mare dei commessi ma un pesce d’acqua dolce in quell’habitat e dei ragazzi di negozio difficilmente lo si può trovare.
Non fece altro che mettere un annuncio in alcuni forum del settore e aspettare qualche giorno con la risposta di qualcuno.
Passarono diversi giorni e nessuno rispose. Passò una settimana e nulla in vista.
Dopo dieci giorni si presentarono due ragazzi di circa trent’anni ciascuno. Quello più giovane, Davide, era un grande conoscitore della materia, ma come contatto al pubblico lasciava molto a desiderare. Era privo di tatto e soprattutto non aveva l’istinto animalesco di saper vendere a chi già aveva l’articolo, o magari non era capace a dirottare il cliente verso un oggetto o una merce che avesse una priorità nell’essere venduta.
Quello di qualche anno più grande, Filippo, era uno che non distingueva l’oro dall’ottone. Ma come savoir faire con la clientela era veramente fenomenale.
Nella settimana di prova, in cui Davide aveva fallito per un buon trenta per cento, Filippo fece impennare le vendite di alcune cose che di solito se ne stavano a prendere la polvere e lui subito vide che avevano bisogno di una ricollocazione. Che risultò vincente. Infatti ne vendette due ancora da essere prodotti dal signor Tazio.
Iolanda non era molto sicura di Filippo, data la sua impreparazione. Avrebbe preferito un ragazzo come Davide che sapeva del mestiere, essendo figlio di un ingegnere metallurgico ed essendo lui laureato in geologia. Almeno l’ottone che aveva comprato Filippo da un truffatore, smascherato appena in tempo dal signor Tazio, non lo avrebbe mai comprato. Ma il signor Tazio era tanto contento di quel ragazzo dal modo così capace di avere a che fare con la clientela, e soprattutto con le clienti, che lo volle a tutti i costi.
Fu Iolanda che mise una pezza per quel ragazzo, dandogli almeno i rudimenti più importanti del mestiere di orafo. Per il resto, visto che la sua scelta non gli era gradita, avrebbe fatto il signor Tazio il lavoro di insegnante, dopo averlo lui detto a chiare lettere che avrebbe pensato a sistemare quel ragazzo.
Iolanda fece i bagagli dalla casa del signor Tazio non appena ci fu una abbondante sicurezza che il negozio sarebbe andato avanti. Dopo quarant’anni passati con il signor Tazio una lacrimuccia, mentre metteva in valigia le cose di prima necessità, le rigò il volto. Ma solo una, visto che tutte le altre le avrebbe piante più avanti, sicuramente, quando avrebbe rimpianto i momenti belli passati nella bottega orafa. E quando avrebbe visto arrivare in Inghilterra tutte le cose che abbellivano la sua camera nella casa con il signor Tazio.
L’orafo propose al ragazzo di venire a vivere nella casa con lui. Ma Filippo dapprima fu restio. Quando fece due conti di quanto avrebbe guadagnato, anche

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Da quei momenti iniziali con Iolanda sono passati quasi quarant’anni, in cui i due nel negozio ne hanno passate di cotte e di crude.
Clienti isterici. Donne in lacrime per il proprio oro da vendere. Milionari che hanno comprato riempiendosi le tasche fino all’orlo. Rapine. Di tutto e di più. E ognuna di queste storie sarebbe bello leggerla in un libro. Ma i due non sono mai stati due letterati, e quindi non avevano altro che ricordi e pettegolezzi da spacciare in giro per incontri e fiere.
Quel giorno, davanti a quei piatti in cui hanno mangiato, Tazio si sente nuovamente solo. Come solo era stato in negozio, prima di quella volta e in intensità minore, quando Iolanda era andata a seppellire i suoi genitori, rispettivamente prima suo padre una volta e poi sua madre successivamente.
A Iolanda rimaneva una sorella più piccola di una decina di anni, di cui aveva sentito tanto la mancanza per il lavoro con Tazio. Adesso si trovava in Inghilterra, dove dopo un corso di avviamento al lavoro si era diplomata nel campo delle perle e viveva del mestiere di gioielliera nel campo perlifero.
L’avrebbe raggiunta non appena si fossero completate le pratiche per la pensione.
Quando tutto fu pronto, disse al signor Tazio che sarebbe rimasta il tempo necessario, dato il fatto che Tazio non voleva smettere di lavorare pur i suoi ottant’anni, a trovare una sostituta, o un sostituto, al suo posto.
Tazio non sapeva dover rifarsi per trovare una persona che fosse precisa come lo era Iolanda, la quale quarant’anni di fedeltà gli aveva regalato.
C’era stato l’affare di quella spilla da regalare ad una spasimante. Ma prima che la consegnasse alla donna, la ridiede a Tazio, con la coscienza che avrebbe rovinato tutti gli anni di lavoro felice e tranquillo con il suo titolare.
Iolanda, pur essendo una donna di una certa età, non ha mai esaurito la sua voglia di sperimentare. E quando ci fu il momento dei computer non si fece scappare l’occasione di imparare. Ci riuscì talmente bene che non smise accuratamente di fare pratica. Si iscrisse a tutti i social network disponibili e si mise a curare le pubbliche relazioni su computer del negozio. Spinse Tazio ad investire in un sito internet e nella pubblicità su computer. E Tazio, scettico, all’inizio non si voleva far contagiare. Ma fatti due conti di quanto si poteva guadagnare sull’essere disponibili al pubblico non si fece scivolare via la situazione.
Fu Iolanda, a suo tempo, a fargli rinnovare il negozio dopo più di cinquant’anni, dai genitori di Tazio, che era sempre in quel modo. Lei puntò molto sulla semplicità del legno e del vetro, come i predecessori del negozio, ma ci mise un pizzico di modernità e una dose abbondante di design. E il risultato piacque molto alla clientela. Tazio non fu molto favorevole al cambiamento. Ma dopo qualche tempo si abituò.

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Ma soli non si combina nulla, disse la sua vocina interiore. E a quella diede in parte ascolto.
Non sapeva minimamente da che parte rifarsi per cercare una signora, meglio se signorina, da non dover intercambiare di anno in anno. Gli ci voleva una del mestiere, già pronta. Che non avesse bisogno di una grande istruzione. Se non per i particolari.
Magari alla fiera dell’oro tra qualche giorno potrò trovare qualcuno, si disse.
E così partì alla volta della città dove si tiene la fiera.
Aveva diversi amici, coltivati via telefono, che periodicamente fiereggiavano con le loro creazioni, oltre che con la loro ditta. E gli venne alla mente Aldo, un commerciante disgraziato del sud Italia che aveva una figlia da maritare, molto preparata nel campo. Gli unici due difetti che aveva erano che era lesbica. E che, per un certo qual modo, non aveva molto savoir faire con la clientela. Ma per lui potevano essere dei vantaggi. Aggiunto il fatto che la fiera a cui incontrò Aldo sarebbe stata l’ultima a cui Aldo stesso avrebbe partecipato, dato il fallimento della ditta, la figlia Iolanda era praticamente nelle sue mani. C’era il difetto del contatto con la clientela, ma un minimo di lavoro di istruzione del suo nuovo personale era preventivato, visto che la perfezione non la si può avere subito al cento per cento.
Tazio fece al padre di Iolanda la proposta di vitto alloggio e un piccolo rimborso spese per i vizietti personali della ragazza. Lui non stava in se dalla gioia.
Iolanda leggermente di più.
Gli dispiaceva lasciare la famiglia. Ma fino ad un certo punto. Il padre sarebbe andato in pensione e lei sarebbe rimasta appiedata. Non voleva assolutamente essere di peso ai suoi genitori.
In fondo era un lavoro subito agganciato a quello del padre. E poi l’aria del nord, dopo averla respirata da ragazza ed essendone stata catturata come pochi altri tanto da voler tornare ogni volta possibile, voleva respirarla tutti i giorni.
Sarebbe stata l’inquilina della ex camera da letto singola di Tazio. E Tazio avrebbe preso possesso della camera matrimoniale dei suoi genitori adottivi.
I primi mesi di Iolanda al negozio, dove le vennero garantiti i contributi regolari pur essendo la paga molto bassa, non furono felicissimi. Un paio di clienti, spaventati dai suoi modi pieni di conoscenza della materia ma molto bruschi, non sopportarono il machismo della ragazza e se ne andarono. Fu Tazio ad insegnarle alcuni trucchi imparati dalla madre quando stava dall’altra parte del negozio dietro il bancone. La ragazza li fece suoi con tale voracità che passato il periodo di rodaggio non ci fu più bisogno che Tazio si togliesse gli occhiali da saldatore per passare dall’altra parte del negozio e mettere una pezza al comportamento della ragazza.

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La vedova, a sentire quel leggero e inizialmente accennato astio della vicina di negozio, decise che più avanti avrebbe fatto qualcosa per il suo compianto marito. E madre e figlio presero l’usanza di listare a lutto il negozio ogni anniversario della morte. E andare alla tomba, che altrimenti non avrebbero mai visto durante l’anno, a piangere un poco quel loro scomparso.
Tazio aveva oramai ben dieci anni di servizio da quando era rimasto solo con la madre nel negozio. Ne sono passati altri venti in aggiunta, in cui i due hanno portato avanti la baracca per vedere la dipartita anche della donna. Oramai anziana signora con le lenti degli occhiali spesse un centimetro. Ma attaccata a quella bottega con le unghie e con i denti. Dove aveva passato i suoi anni più belli insieme al marito.
Questa volta non ci fu bisogno di sofferenze o spese mediche: una notte la donna, con il sorriso sulle labbra, spense il suo respiro e non riuscì nemmeno a salutare il figlio, così orgogliosa di lui e dell’averla aiutata nella sua vita pur essendo, alla fine della questione, una perfetta estranea.
Tazio non ce la fece a proseguire nel lavoro come successe per la morte del padre adottivo. Chiuse un paio di giorni, lasciando al negoziante affianco l’incarico di dire alla clientela alla ricerca del proprio prezioso che tutto era posticipato di qualche giorno, aggiungendo le scuse del negozio.
Tazio era nuovamente solo al mondo.
Ma diversamente da quando era un bambino adesso aveva un mestiere in mano e un luogo dove vivere. Decise che vi si sarebbe aggrappato con tutte le sue forze.
Non tolse l’usanza di listare a lutto il negozio per la morte dei genitori. E rispettivamente, anno dopo anno, si ripetevano la visita al cimitero e la serranda abbassata con il drappo nero.
Quando la madre morì, Tazio aveva trent’anni di servizio, tra l’essere un bambino di negozio e un orefice lavoratore. E già venti di esperienza lavorativa diretta, senza intermediario il padre che possa aiutare quando non ci si arriva a qualcosa. E di questi anni si fece forza insieme alla forma artigianale che il suo lavoro aveva da sempre assunto. Tutto quello che gli mancava era una donna accanto.
Ma non come compagna di vita. Gli serviva una signora fidata che gli tenesse a bada il negozio e la clientela. Una donna che fosse completamente obbligata a vivere la vita di una commerciante senza accampare pretese di nessun genere. Perché lui ad avere una moglie non ci teneva. Il suo lavoro di artigiano orafo era la donna che aveva deciso di sposare fin da ragazzo. Lui aveva bisogno, in quel momento, di qualcuno che facesse come aveva sempre fatto sua mamma, o almeno una parte di quelle attenzioni. E principalmente, si era sempre detto, devo tutelare la mia vita. Io sono solo, si ripeteva. E se la vita per l’ennesima volta mi ha lasciato solo vuol dire che devo rimanere solo.

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scherzavano, come un padre e un figlio fanno naturalmente, quando giravano per fiere e per mostre. Un ragazzo come Tazio, arrivato ai venti anni, si poteva ritenere un buon conoscitore del lavoro del padre adottivo, dal semplice distinguere un oro vero da uno falso fino al riprodurre alla perfezione, anche in miniatura, una fede sarda.
La scuola, per Tazio, fu il tasto dolente. Perché non riusciva a stare lontano dalla bottega orafa. Da principio i due nuovi genitori lo spingevano a conseguire almeno il diploma. Ma Tazio non sentiva nessun obbligo. La sua vita, come capì quando stette nell’istituto minorile, era con i suoi genitori, anche se adottivi. Accanto a loro.
Fu cosi che i nuovi papà e mamma di Tazio si arresero, dopo tutti i tentativi fatti per far studiare il bambino, a fargli prendere almeno la licenza dell’obbligo. Lui non ne aveva nessuna voglia. Ma gli proibirono, per un certo periodo, di frequentare la bottega se non avesse fatto il suo dovere di studente.
Anche Tazio si arrese e portò avanti, per il rotto della cuffia, gli studi fino ad ottenere la licenza dell’obbligo. Il tutto lavorando, dopo la fine del divieto, con i genitori adottivi.
E fu un bene che lui avesse quella conoscenza del lavoro passati i vent’anni. Perché quella famigliola felice, che ogni giorno pranzava nel retrobottega con i manicaretti della madre, da terzetto si ridusse a coppia per colpa di un incidente che obbligò il padre adottivo di Tazio su una poltrona a guardare un punto fisso nel vuoto. E dopo dieci anni, di cui gli ultimi due passati a fare avanti e indietro all’ospedale per controlli e brevi ricoveri, la vita del padre si spense.
Non ci fu tempo di piangere nessuno per la madre e il figlio adottivo. Perché il lavoro chiedeva attenzione. E siccome esiste il detto che il calzolaio va in giro con le scarpe rotte, tutti i preziosi della bottega erano acquistati con cambiali. Che andavano onorate, finiti i soldi per curare l’uomo. Pena la miseria. Al funerale andarono i pochi vicini del negozio e basta. La moglie e il figlio adottivo non persero tempo e fecero un altarino nel laboratorio, a segno del loro dolore, e continuarono, come se nulla fosse successo, la loro opera di bottegai. Senza il lusso di una lacrima.
I vicini si stupirono di questo comportamento proprio quando videro che al funerale, e prima ancora alla veglia funebre, moglie e figliolo non erano presenti. La bara era magnifica e il vestito del defunto di buon taglio. Ma le persone più importanti di quella vita spenta non c’erano, a sentire tutta la vicinanza dei loro co-quartierati.
Fu la fruttivendola ad andare a trovare la vedova e a sapere quel piccolo segreto di bottega. Ma fu necessario dirglielo, altrimenti avrebbe pensato che quei due erano solo degli avari e dei taccagni, attaccati ai soldi fino al punto da non perdere un momento del loro lavoro. Ma anche delle persone senza rispetto per i morti.

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non troppo spesso per non aspirare oro o altri preziosi, e puliva i vetri delle vetrine e del bancone, sulle cui parti di legno passava la cera d’api per farlo rilucere. Il signor Tazio riordinava tutto il materiale del suo banco di lavoro, dividendo i lavori da fare con quelli fatti, e quindi da consegnare a Iolanda per essere messi a posto nei cassetti specifici.
Il pomeriggio passò languido, con qualche cliente che voleva vendere i propri preziosi e qualche altro cliente che fece acquisti delle creazioni che il signor Tazio preparava durante la sera a negozio chiuso. Per rientrare a casa non doveva fare altro che passare da una porta blindata sul retro e salire le scale dell’androne del palazzo dove quella porta, accuratamente blindata, sbucava.
La vita del signor Tazio era sempre ruotata intorno a quel lavoro che aveva imparato a fare in tenera età, da una coppia di orefici che lo adottò quando ancora era un bambino piccolo. I genitori di Tazio erano morti di malattia, da cui misteriosamente lui non fu contagiato. I due orefici, lui artigiano e lei disegnatrice, lo presero con loro perché era un orfano, senza parenti ne conoscenti. Un bambino, abbandonato a se stesso, che fu il coronamento dei loro sogni. Visto che loro, di bambini non ne potevano avere.
Quel bambino tanto piccolo si fece largo tra i suoi genitori adottivi, e non ebbe mai gelosia della sua vera mamma e del suo vero papà. Considerò quei due signori tanto appassionati di quella bottega orafa come qualcuno a cui fare riferimento in una vita altrimenti da passare in un istituto minorile.
Da solo.
Ci stette una settimana insieme a tutti quei bambini tristi ed arrabbiati all’istituto prima che lo portassero via i due orefici. E potesse diventare l’orafo apprezzato e stimato che stava mangiando con la sua commessa/dipendente.
Non fu facile per l’allora giovane Tazio apprendere i rudimenti del mestiere del suo babbo adottivo. Prima si diede da fare con la sua mamma adottiva a capire i segreti dello stare al pubblico. E non diventare come il marito sempre bisognoso della moglie per qualsiasi transazione o movimento con la clientela.
Passò un anno abbondante quando, a dieci anni, il padre adottivo lo chiamò nel retro. Dove lui passò sessant’anni, di cui l’apprendistato fino all’età dei venti anni, in compagnia del padre adottivo, con cui si era instaurato un bel rapporto di complicità e di empatia.
Nei primi dieci anni nel laboratorio Tazio imparò quali sono e come si impugnano i ferri del mestiere, oltre a riconoscere oro da oro e altri metalli preziosi e pietra da pietra più di quanto avesse fatto da dietro il bancone. Insieme, lui e il padre adottivo, andavano a comprare i materiali per le creazioni. Insieme progettavano gite in posti sentiti nominare da quella radio che faceva compagnia ai due artigiani. Insieme affrontavano i dubbi sulla vita che Tazio di volta in volta srotolava al padre adottivo e su cui lui cercava di dare una risposta, mai pre-compilata, al figlio. E insieme ridevano e

Il racconto di Dicembre–Pagina 1

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“Perché vuoi andare in pensione? Non ti piace lavorare con me?” disse il signor Tazio, mentre i due stavano gustando il pranzo di mezzogiorno nel bistrot dall’altra parte della strada.
“Mi capisca signor Tazio! Io oramai non ci vedo quasi più… Ho bisogno di smettere di lavorare” disse Iolanda nello stesso tempo in cui stava divorando la sua insalata mista con i ravanelli e le carote a filetti sottili. Il signor Tazio fece molta fatica a capire quello che lei diceva mentre masticava il suo boccone.
“Se si tratta di soldi sai che con me sfondi una porta aperta…” continuò il signor Tazio mentre gustava il suo brasato di manzo con le patate.
“Glielo ripeto: non ce la faccio più!” disse Iolanda fermandosi dal mangiare. “Ma non per lei, e questo dovrebbe saperlo. Io sono vecchia…”
“A 60 anni? E cosa dovrei dire io che ne ho venti più di te?” fece il signor Tazio con fare spiritoso.
Iolanda lo guarda davanti e gli risponde: “Lasciamo perdere… Spero che lei se lo ricordi quel colpo che le è preso per quella settimana in cui dovette lavorare giorno e notte pur di evadere l’ordine dalla Cina…”.
Tazio la fissa e si infuria con lo sguardo: “Non è stato un colpo! Era solo una indigestione!”
“Si, vabbè…”
“Ma lo hanno detto anche i medici che non ci capivano niente…e che io dopo la visita ero fuori pericolo”
“Signor Tazio, io non voglio cambiare discorso, ma la questione rimane. Io ho raggiunto una età e ho delle condizioni fisiche per cui non posso più lavorare. Ho sopportato fino alla pensione, ma adesso devo proprio smettere”.
Il signor Tazio non la guarda più. Quelle parole o avevano completamente avvilito. Perché se una signora poco più giovane di lui, se non sottolineabile come di una generazione dopo la sua, si considerava vecchia lui era tranquillamente un soggetto da buttare. Eppure lui il suo lavoro lo ha sempre affascinato e appassionato. Ogni volta che veniva a sapere di mostre orafe, di nuove creazioni correva a vederle e a studiarle. Magari per riprodurle per suo conto.
Non si poteva evitare di definirla una bottega orafa che principalmente campava di riparazioni e di lavori su commissione. Ma certi lavori esposti non avevano la premura di starsene nella vetrina, tanto erano belli. In molti dicevano che il signor Tazio era molto dotato ed era degno figlio di suo padre, anche se adottivo.
Dopo le parole di Iolanda il pranzo continuò triste e molto piatto. Con i due commensali occupati a svuotare ognuno il proprio piatto.
Finito di mangiare si bevvero un caffè bollente, come solo quel bistrot sapeva fare, e se ne tornarono al negozio a mettere a posto per l’arrivo dei vari clienti. Iolanda spazzava con cura, pur passando di tanto in tanto l’aspirapolvere ma